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Villon, muovendo i comandi, fece compiere una virata a sinistra all'aviogetto dirigenziale, nel pomeriggio carico di nuvoloni.

Danielle osservava, dal finestrino del secondo pilota, la pineta canadese che sfilava sotto di loro, folta come un tappeto verde cupo. «È una vista incantevole», commentò.

«Uno scenario di cui non potresti godere da un aereo di linea», rispose Villon. «Volano a quota troppo alta perché si possano cogliere tutti i particolari del panorama.»

La donna era vestita di blu, con un maglioncino attillato e una gonna di cotone che le arrivava alle ginocchia. Un abbigliamento che si usa definire pratico e che tuttavia non toglieva niente al caldo fascino femminile.

«Anche il tuo nuovo aereo è magnifico.»

«Un omaggio dei miei facoltosi sostenitori. Naturalmente non è intestato a me, ma nessun altro lo adopera.»

Rimasero qualche minuto in silenzio, mentre Villon manteneva l'apparecchio in rotta immutata, sopra il cuore del Laurentides Park. Laghi azzurri cominciarono ad apparire sotto, simili a minuscoli zaffiri incastonati in una cornice smeraldina. Riuscirono a distinguere nitidamente una grande quantità di barchette di pescatori che gettavano le lenze per catturare le trote iridate, abbondanti in quelle acque.

A un tratto, Danielle disse: «Sono felice che tu mi abbia invitata. È da tanto che non c'incontravamo».

«Soltanto un paio di settimane», precisò lui, senza guardarla. «Sono stato occupatissimo con la campagna elettorale.»

«Pensavo che forse... sì, che forse non volevi rivedermi mai più.»

«Come t'è saltata in mente una simile idea?»

«L'ultima volta, nel cottage...»

«Che cos'era accaduto?» chiese, sinceramente stupito.

«Non ti sei mostrato troppo affettuoso.»

L'uomo corrugò la fronte, tentando di ricordare. Non trovò una spiegazione plausibile al rimprovero dell'amante e l'attribuì a una sua particolare suscettibilità. «Mi rincresce. Evidentemente avevo cento cose per la testa.»

Portò l'aereo sopra un grande banco di nuvole in corsa e inserì il pilota automatico. Poi le sorrise. «Vieni, voglio fare ammenda.» La prese per mano e la condusse fuori della cabina di guida.

Lo spazio riservato ai passeggeri misurava sei metri fino al gabinetto.

Era arredato con quattro poltrone e un divano, un fornitissimo bar e una tavola da pranzo. Un folto, morbido tappeto copriva il pavimento. Aprì la porta che dava sullo scompartimento-notte e s'inchinò davanti a un letto di dimensioni principesche. «Il perfetto nido d'amore, intimo, isolato e al riparo da occhi indiscreti», disse.

I raggi del sole filtrarono attraverso i finestrini e si diffusero sulla coperta. Danielle si mise seduta mentre Villon le offriva un drink.

«Non c'è una legge che proibisce queste cose?» chiese lei.

«Di fare l'amore a millecinquecento metri?»

«No», precisò lei, tra un sorso e l'altro del suo Bloody Mary. «Di far volare in tondo un aereo per due ore senza che qualcuno sieda ai comandi.»

«Ti proponi di denunciarmi alla polizia?»

Si riadagiò voluttuosamente sul letto. «Mi pare già di leggere i titoloni dei giornali: IL NUOVO PRESIDENTE DEL QUEBEC SORPRESO IN UN POSTRIBOLO VOLANTE.»

«Non sono ancora stato eletto presidente», replicò lui, con una risata.

«Lo diventerai dopo le elezioni.»

«Mancano ancora sei mesi e può ancora succedere di tutto.»

«I sondaggi ti danno per favorito.»

«Che ne dice Charles?»

«Non ti nomina più, nemmeno per sbaglio.»

Villon sedette sul letto e le sfiorò con dita leggere il ventre. «Adesso che il parlamento gli ha votato la sfiducia, il suo potere si è volatilizzato. Perché non lo lasci? Le cose diventerebbero più semplici per noi due.»

«Meglio che rimanga ancora qualche tempo con lui. Sono molte le cose importanti per il Quebec che posso sapere dalla sua bocca.»

«Dato che siamo in argomento, c'è qualcosa che riguarda me.»

La donna incominciò ad agitarsi. «Di che si tratta?»

«La prossima settimana il presidente degli Stati Uniti terrà un discorso davanti al nostro parlamento. Non te ne ha accennato?»

Danielle gli prese la mano e la portò più in basso. «Charles ne parlava ieri l'altro. Niente di preoccupante. Mi ha detto che il presidente avrebbe semplicemente perorato per una transizione del Quebec all'indipendenza senza scontri e senza disordini.»

«Lo sapevo io», commentò Villon, sorridendo. «Gli americani si accingono a ingoiare il rospo.»

Danielle non si trattenne più e gli si strinse addosso. «Spero che tu abbia fatto il pieno prima di decollare da Ottawa», mormorò.

«Ne abbiamo a sufficienza per altre tre ore di volo», le rispose mentre calava su di lei.

«Non c'è possibilità di errore?» chiese Sarveux al telefono.

«Assolutamente nessuna», rispose il commissario Finn. «Il mio uomo li ha visti salire sull'aereo del signor Villon. Li abbiamo seguiti sullo schermo radar. Hanno continuato a volare in tondo sopra il Laurentides Park dall'una del pomeriggio in avanti.»

«Il suo uomo è certo che si trattava di Henri Villon?»

«Certissimo», assicurò Finn.

«La ringrazio.»

«Di nulla, signore. Continuerò la sorveglianza.»

Sarveux chiuse la comunicazione e per qualche minuto non fece niente, tentando di ricomporsi. Poi parlò nell'interfono: «Adesso può farlo entrare».

A tutta prima, nell'istante cruciale dello shock, i suoi lineamenti si tesero. Aveva la certezza che gli occhi lo ingannassero, che la fantasia gli giocasse un brutto scherzo. Le gambe si rifiutarono di obbedirgli, non riuscì a trovare la forza di alzarsi in piedi. Il visitatore attraversò la stanza e si fermò davanti alla scrivania.

«Grazie di avermi ricevuto, Charles.»

Il volto portava stampata la solita espressione fredda, la voce aveva il timbro e l'accento di sempre. Sarveux dovette lottare con se stesso per ostentare una calma esteriore, ma si sentì di colpo debolissimo e in preda alle vertigini.

L'uomo che aveva di fronte era Henri Villon in carne e ossa, a suo perfetto agio, con l'abituale, irritante aria di staccata superiorità.

«Pensavo... credevo... ti ritenevo impegnato nella campagna elettorale nel Quebec», balbettò Sarveux.

«Mi sono ritagliato un margine di tempo per venire a Ottawa, con la speranza che noi due si possa addivenire a una tregua.»

«Il baratro tra le nostre opinioni è troppo profondo», ribatté Sarveux, riguadagnando pian piano il dominio di sé.

«Il Canada e il Quebec debbono imparare a convivere senza ulteriori attriti», affermò Villon. «E dovremmo imparare la stessa cosa anche noi due.»

«Sono disposto ad ascoltare le tue ragioni.» Nella voce di Sarveux risuonò un accento più duro. «Siedi, Henri, e dimmi che cosa hai da propormi.»

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